L’inquinamento causato dai fornelli a gas nelle nostre cucine accorcia la vita di 12.706 italiani ogni anno, molto più che in qualsiasi altro paese d’Europa, secondo una recente ricerca scientifica condotta dai ricercatori dell’Università Jaume I in Spagna (la ricerca è scaricabile alla fine dell’articolo). Misure di inquinamento effettuate in migliaia di abitazioni hanno appurato che i limiti fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per il diossido di azoto (NO2) vengono regolarmente violati in 14 paesi europei quando l’inquinamento di fondo si combina con i fumi delle cucine a gas.
Secondo i ricercatori, le morti premature ammontano a 39.959 in tutta Europa. Gli Stati più colpiti sono Italia, Polonia, Romania, Francia e Regno Unito, dove più famiglie cucinano con il gas. L’inquinamento è più grave nelle case con scarsa ventilazione e in cui si cucina di più. A causa delle cucine a gas la vita media si accorcia in Italia di poco meno di un anno.
Altri inquinanti come il benzene, la formaldeide e il particolato, prodotti dalle cucine a gas sono la causa di circa 367.000 casi di asma infantile e 726.000 casi in tutte le fasce d’età in Europa ogni anno.
La dott.ssa Juana Maria Delgado-Saborit, principale autrice dello studio, ha dichiarato: “Già nel 1978 abbiamo scoperto che l’inquinamento da NO2 è molto più alto nelle cucine che utilizzano fornelli a gas rispetto a quelle elettriche. Ma solo ora siamo in grado di quantificare il numero di morti prematuri. L’impatto è molto peggiore di quanto pensassimo, i nostri modelli suggeriscono che in metà delle abitazioni in metà Europa di superano i limiti dell’OMS. L’inquinamento esterno crea la base per questi superamenti, ma sono i fornelli a gas a spingere le abitazioni nella zona di pericolo.”
Il dottor Francesco Romizi, dell’associazione Medici per l’Ambiente (ISDE Italia) ha invitato le istituzioni ad “adottare misure per l’elettrificazione delle nostre abitazioni” e Legambiente promuove una campagna nazionale per togliere progressivamente il gas dalle case. Oggi la cucina elettrica a induzione è più conveniente dei vecchi fornelli a gas: la piastra costa meno, ingombra e consuma meno, richiede meno manutenzione. Per chi deve sostituire il gas, l’unico inconveniente potrebbe essere la necessità di dover sostituire le pentole con nuove in acciaio. Il cambio val bene un anno di vita in salute.
L’Europa, tra le misure per il Green Deal, prevede l’elettrificazione dei consumi domestici. Ma il 24 ottobre scorso il Consiglio d’Europa (che riunisce i governi nazionali) ha deciso contro il parere degli eletti al parlamento europeo, di privilegiare la competitività delle industrie. La presidente del Parlamento europeo Metsola ha promesso un voto di riparazione: “È nostro compito mantenere gli impegni”. I conservatori (industrie e governi) si dimenticano di spiegare perché cucinare in modo più salubre ed economico oppure usare bici, bus e auto elettriche dovrebbe ridurre la competitività europea.
Gli squilibri del ciclo dell’acqua non minacciano solo gli ecosistemi: le precipitazioni più intense e i periodi di siccità provocano danni per miliardi di dollari, danneggiano i raccolti e fanno salire i prezzi degli alimenti, innescando crisi alimentari e ondate di emigrazione forzata. A livello locale costringono ad investimenti miliardari per diventarsi dalle ondate di piena dei torrenti: in Romagna si sono verificate ancora questa estate esondazione che erano previste con frequenze secolari. Coltivazioni come il mais e il riso richiedono precipitazioni abbondanti e regolari in certi periodi dell’anno, se cambiano le perdite divengono rilevanti e le compagne assicurative aumentano i prezzi. Così cambiano le coltivazioni: si sperimentano le prime coltivazioni di banane in Sicilia e si comincia a produrre il vino in Inghilterra.
Il ciclo globale dell’acqua sta diventando sempre più instabile a causa del cambiamento climatico, afferma l’ultima edizione del rapporto sullo stato delle risorse idriche pubblicato dall’Organizzazione meteorologica mondiale. Nel 2024, per il sesto anno consecutivo, il ciclo idrologico ha mostrato chiari segni di squilibrio. Due terzi dei bacini fluviali del pianeta hanno sperimentato condizioni anomale, con una portata significativamente più bassa o più alta rispetto alla media degli anni tra il 1991 e il 2020. Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, e le alte temperature hanno causato siccità più lunghe e intense in varie parti del mondo. Allo stesso tempo il riscaldamento ha favorito l’evaporazione dei mari e aumentato la capacità dell’atmosfera di trattenere l’umidità, provocando precipitazioni eccezionali altrove. Mentre il bacino delle Amazzoni e l’Africa meridionale hanno subìto siccità di proporzioni storiche, le alluvioni hanno provocato 2.500 vittime nell’Africa tropicale e più di mille in Asia e nel Pacifico, e in Europa hanno interessato l’area più vasta dal 2013. Per il terzo anno consecutivo in tutte le regioni è stata registrata una riduzione del volume dei ghiacciai, con una perdita totale stimata in 450 milioni di tonnellate.
Ma secondo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il riscaldamento globale non sarebbe altro che “la più grande truffa mai perpetrata nel mondo”. Le parole sono state pronunciate di fronte a circa 190 rappresentanti delle nazioni di tutto il mondo all’Assemblea generale dell’Onu a New York. Trump ha ordinato di oscurare i siti ufficiali che ospitavano le valutazioni nazionali sul clima e i rapporti scientifici che documentavano in maniera chiara e rigorosa gli impatti del riscaldamento globale negli Stati Uniti. Trump ha poi aggiunto che l’energia rinnovabile è una “barzelletta patetica”, che non funzionano: in questi primi giorni d’ottobre l’intero Regno Unito si è alimentato solo con elettricità dal vento per 72 ore finale. Infine ha aggiunto: ”Ho imposto un ordine permanente alla Casa Bianca. Non usare mai la parola ‘carbone’ da sola. Piuttosto si aggiunga ‘pulito e bello’. Suona molto meglio, no?”. Se lo dice lui…
Cinque anni fa, prima del Covid, in consiglio comunale si dibatteva di come ridurre la plastica. Bar e negozi si dichiaravano “plastic free”, liberi dall’usa e getta. L’Erbolario ha dichiarato di non usare microplastiche nei propri prodotti, perché la cosmesi ne fa un gran uso. Si proponeva di tornare ad usare materiali naturali nell’agroindustria e persino produrre bioplastiche da scarti agricoli. Buone intenzioni oggi un po’ dimenticate.
In occasione di Puliamo il Mondo, gruppi di volontari e scolaresche si dedicano ancor oggi a raccogliere i rifiuti che si disperdono: constatiamo che la plastica non viene degradata dai batteri, non fertilizza il suolo come succede per le foglie o le bucce. I sacchetti, le bottiglie, i teli in plastica usati in agricoltura, i vestiti in fibre sintetiche, le cassette o le tubazioni, i giochi o le componenti dure delle carrozzerie o degli elettrodomestici, se non raccolti e differenziati, se non li portiamo ai centri comunali di raccolta, si ritrovano nell’ambiente. Lì rimangono per decenni, per secoli. Si rompono, sfibrano, sotterrano o si disperdono grazie ai venti, alle piogge, ai corsi d’acqua e alle correnti marine. Le frazioni, le fibre, le micro e le nanoplastiche si ritrovano sugli alberi, galleggianti nelle acque dei mari, poi spiaggiati o depositati nei sedimenti profondi dei laghi alpini e degli oceani. Se ne nutrono gli animali, i pesci e gli uccelli marini, le tartarughe pensando di ingoiare meduse e, quando non strozzano o soffocano, si ritrovano nell’apparato digestivo, nel sangue, nei tessuti. Così le nanoplastiche entrano nei cibi acquistati e, dal piatto nei nostri corpi.
Un recente studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine ha rivelato una presenza di microplastiche nel cervello pari alla quantità di plastica che potrebbe essere contenuta in un cucchiaino. I livelli osservati erano da 3 a 5 volte più alti negli individui con una diagnosi documentata di demenza. I tessuti cerebrali mostrano concentrazioni da 7 a 30 volte superiori rispetto ai reni e al fegato. Documentata la presenza anche nello sperma, nella placenta e nel latte. Dal sito delle Fondazione Veronesi scopriamo che “l’aumento delle concentrazioni globali di microplastiche e nanoplastiche ambientali solleva preoccupazioni riguardo l’esposizione umana e gli effetti sulla salute”.
Dopo anni il 15 agosto scorso a Ginevra, in Svizzera, è fallito l’ultimo appuntamento del negoziato per stilare un Trattato globale sulla plastica. A chiedere di ridurre o eliminare gradualmente la plastica erano 74 stati marittimi o insulari, molti europei, ma non l’Italia. Contrari i maggiori produttori di combustibili fossili: Stati Uniti, Russia, diversi Paesi Arabi e ultimamente anche la Cina ed altri Paesi del sud est asiatico. Così nel mondo cresce la produzione di plastica: nel 2022 400 milioni di tonnellate, il doppio del 2000. In Europa ben 58 milioni e appena l’1% di bioplastiche. Quasi il 70% diviene subito rifiuto (per metà imballaggi) e solo il 25% viene riciclato. A causa della plastica in Europa si emettono 252 milioni di tonnellate di CO2, 58% nella produzione e trasformazione dei prodotti in plastica e il 42% a causa delle emissioni causate dagli inceneritori. Ne abbiamo di strada da fare.
Domani Forum “Agricoltura e clima” della Regione Lombardia a Lodi. Per legambiente: “Ammoniaca e metano sono sempre più protagonisti della cattiva qualità dell’aria e concorrono in modo rilevante alla crisi climatica, serve una strategia per ridurne le emissioni. Eccesso di capi allevati e di consumo di fertilizzanti alla base del problema.”Ristrutturare le filiere alimentari padane per una zootecnia che produca meglio, ma meno.
Con l’uscita di scena dell’estate è già il momento di prepararsi all’inevitabile aumento degli inquinanti che accompagna le tiepide atmosfere autunnali. Sempre più protagonista, in termini di emissioni atmosferiche, è l’agricoltura: la pianura padana vanta una spiccata vocazione zootecnica nelle produzioni del settore primario, base delle eccellenze produttive del comparto alimentare affidate ai simboli della DOP economy italiana: Grana Padano, Prosciutto di Parma e Parmigiano Reggiano. Se il valore di queste specialità è fuori discussione in termini di qualità e di contributo alla bilancia commerciale, occorre fare i conti con gli effetti che la spinta produttivistica determina, in particolare sulle consistenze dei capi bovini e suini allevati, per far fronte agli ordinativi dell’industria di trasformazione.
Una delle conseguenze più evidenti dell’eccesso di capi allevati e di colture foraggere intensive in Pianura Padana è il dato emissivo: per sostenere livelli produttivi così elevati la fertilità naturale dei terreni coltivati non basta, occorrono grandi input supplementari di nutrienti, sia per i suoli che per gli animali allevati. In particolare per mantenere l’attuale livello delle produzioni che incarnano il ‘made in Italy’ alimentare occorre importare tanti nutrienti a base di azoto: in particolare dalla Russia che, nonostante le sanzioni, è di gran lunga primo produttore mondiale di urea agricola, il fertilizzante più impiegato, ma anche con i concimi chimici non si arriva a soddisfare il fabbisogno mangimistico delle mandrie lombarde: occorrono ulteriori apporti sotto forma di proteine somministrate agli animali allevati, ed in particolare soia che sbarca dal Sud America, e mais dall’Europa orientale. Gran parte dell’azoto di fertilizzanti e mangimi finisce, prima o poi, nelle decine di milioni di tonnellate di reflui zootecnici distribuiti nei campi. Il problema è che la quantità di azoto somministrata eccede le necessità delle colture, per questo deve essere smaltita in diversi modi, come inquinante delle acque (sotto forma di nitrati) e dell’aria come ammoniaca. Un altro importante ‘prodotto di scarto’ degli eccessi di fertilizzanti è il protossido d’azoto, potente gas climalterante con un ‘potere riscaldante’ per l’atmosfera ben 273 volte più elevato della CO2.
Così campi e stalle in Lombardia sono la fonte del 95% delle emissioni lombarde di ammoniaca, 93.000 tonnellate in totale secondo i calcoli di ARPA. Si tratta di un quarto del dato nazionale per questa molecola gassosa, una quantità impressionante se si considera che in termini di superfici coltivate la Lombardia rappresenta solo il 7% del totale nazionale. Se poi si guarda oltre i confini, alle altre regioni a spiccata specializzazione zootecnia – Piemonte, Emilia Romagna e Veneto – si arriva a 230.000 tonnellate, il 66% del totale nazionale per questo gas, tutte concentrate nella pianura che già deve a traffico e impianti di riscaldamento il primato dell’aria più inquinata d’Europa.
Ciò ha gravi conseguenze perché l’ammoniaca, nella stagione fredda, si combina con gli altri inquinanti (come gli ossidi di azoto, NOx, prodotti soprattutto dai veicoli diesel) per formare microcristalli di sali che costituiscono una quota crescente delle polveri sottili,specie nei centri minori del sud Lombardia in cui la presenza di allevamenti è maggiore: non è un caso se le centraline ARPA del basso lodigiano, cremasco e cremonese hanno spesso livelli di PM10 e PM2.5 decisamente più alti di quelli misurati nel centro di grandi città come Milano o Brescia.
Le Regioni stanno giustamente sostenendo gli agricoltori affinché migliorino la gestione dei liquami per ridurre le emissioni: la copertura delle vasche dei liquami, le buone pratiche per la distribuzione in campo, il convogliamento dei liquami ad impianti per la produzione di biometano, sono tutte azioni positive e necessarie, ma devono accompagnarsi alla riduzione degli input. Il problema è che gli eccessi di azoto non sono facili da nascondere sotto il tappeto, le buone pratiche possono limitare le emissioni in atmosfera ma, se non sono accompagnate dalla riduzione degli apporti, trasferiscono i problemi ai suoli e alle acque.
“Accogliamo con favore l’indicazione di una messa al bando dell’urea, prevista dal decreto ministeriale per la lotta all’inquinamento pubblicato quest’estate. Abbandonare il fertilizzante chimico richiede una migliore valorizzazione dei fertilizzanti organici e in particolare dei digestati, è un passo nella direzione giusta, ma occorre anche limitare l’eccessiva produzione di reflui d’allevamento, riducendo il numero di capi a livelli compatibili con le superfici foraggere, così da evitare la massiccia importazione di mangimi esteri” commenta Damiano Di Simine, responsabile della campagna ‘MetaNo – Coltiviamo un altro clima’ di Legambiente Lombardia. Produrre meno non è necessariamente una perdita economica, se la minor produzione è compensata da una maggior valorizzazione in termini di distintività e legame con il territorio dei prodotti alimentari: si tratta di sviluppare strategie di marketing e di consumo sostenibile che facciano i conti con le potenzialità del territorio. Quando lo si è fatto, ad esempio nelle produzioni vinicole, i risultati in termini di valore del prodotto e di reddito non si sono fatti attendere!
Troppi capi allevati significa anche emissioni climalteranti. E’ soprattutto l’allevamento bovino a determinare massicce produzioni di metano, gas serra con un potenziale di riscaldamento 85 volte superiore a quello della CO2. Anche in questo caso la Lombardia spicca tra le fonti emissive: l’agricoltura lombarda infatti ne rilascia ben 235 .000 tonnellate annue, pari al 70% delle emissioni regionali di metano. Per fare un confronto, l’agricoltura di tutto il resto d’Italia ne rilascia 509.000 tonnellate (dati ISPRA): questo significa che l’agricoltura Lombarda ha una intensità di emissioni di metano 6 volte più alta del resto d’Italia. Tradotto in CO2 equivalente, complessivamente la fonte agricola pesa per il 10,2% di tutte le emissioni climalteranti della Lombardia, come dire la metà di tutte le emissioni del settore dei trasporti, secondo i dati di ARPA Lombardia.
La riduzione delle emissioni di metano rappresenta una priorità, si tratta infatti di un ‘inquinante climatico’, perché oltre a causare riscaldamento atmosferico è anche il principale precursore della formazione di ozono, una molecola a sua volta climalterante, ed estremamente tossica per la salute umana ed anche per le vegetazioni, arrivando a causare importanti perdite di rese nei raccolti. Anche in questo caso l’agricoltura si conferma come il settore economico che più subisce gli effetti di cambiamenti climatici e inquinamenti: secondo l’agenzia europea dell’Ambiente, il danno economico della perdita di raccolti dovuto all’inquinamento da ozono in UE vale circa 2 miliardi di euro: un motivo in più per mettere in cima alle agende agricole i temi della sostenibilità climatica
Nella “puntata” precedente abbiamo appurato che il lodigiano detiene il primato (secondo solo al brindisino) delle centrali elettriche a metano fossile, quasi 2.800 MW. E’ ora di domandarci come possiamo liberarcene, e liberarci insieme dalle ingiustizie del caro metano, del caro bollette e delle conseguenze della crisi climatica.
“Occorre accelerare lo sviluppo di generazione elettrica pulita.”, raccomandava Mario Draghi a marzo scorso al Parlamento presentando il rapporto sul Futuro della Competitività Europea. “In Italia sono disponibili decine di gigawatt di impianti rinnovabili in attesa di autorizzazione”. “È indispensabile semplificare e accelerare gli iter autorizzativi e avviare rapidamente gli strumenti di sviluppo.”.
Succede il contrario. L’associazione delle industrie elettrotecniche (ANIE) informa che nel secondo trimestre 2025 la crescita degli impianti fotovoltaici ha subito un rallentamento: appena 1.092 MW di nuova potenza installata, in calo del 25% rispetto allo stesso periodo del 2024 e del 18% rispetto al primo trimestre di quest’anno. Il calo ha riguardato soprattutto i grandi impianti, quelli oltre i 10 MW come gli agrivoltaici, che si sono dimezzati. Non bene anche gli impianti sotto 1 MW, per le piccole imprese (-31%) e per quelli domestici con potenza inferiore ai 20 kW (-23%).
A rallentare non è certo la domanda: il 31 maggio le richieste di connessione in alta tensione per il fotovoltaico si attestavano a 154.570 MW di potenza, ben di più di quel che servirebbe per centrare gli obiettivi del piano governativo al 2030. Ma quelle con esito positivo sono appena 6.450 MW e appena mille quelle realizzate in tre mesi. Ne dovremmo realizzare 10.000 MW all’anno per rispettare i piani. La causa? Le leggi scritte male, le tante burocrazie statali e regionali, le campagne mediatiche denigratorie, la politica che rinvia.
Anche a Lodi le richieste di impianti fotovoltaici non mancano: sul sito della provincia sono censiti impianti in corso di autorizzazione per 114 MW, a cui andrebbero aggiunti quelli di competenza ministeriale, come quello di Mulazzano (60 MW). Appena il 2 per mille delle domande di autorizzazione nazionali bussa alle nostre porte, molti di più di quelli che si realizzano. Sappiamo dai dati della Regione Lombardia (fermi al 2023), che il 73% dei 151 MW fotovoltaici installati in provincia di Lodi è stato realizzato più di dieci anni fa e forniscono appena il 12,5% dei nostri consumi. Appena il 20% dei tetti delle 40.000 costruzioni lodigiane (case, capannoni o edifici rurali), risultano parzialmente occupati dagli oltre 6 mila impianti solari, per lo più di piccole dimensioni.
A Lodi stiamo realizzando poco più di 10 MW all’anno. Per coprire il 40% dei nostri consumi elettrici al 2030, dovremmo installare 500 MW fotovoltaici, quindi 100 MW all’anno, dieci volte tanto. Impianti piccoli e medi sugli edifici e i capannoni, e alcuni più grandi agrivoltaici, con filari di pannelli ben distanziati, a tre metri di altezza, che non fanno perdere neanche un metro al suolo agricolo coltivato, come in Spagna e Germania dove la bolletta costa meno.